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Titolo: Con il fucile e con la fotocamera

Autore/i: Mario Finotti

Parole chiave: Guerra, Fotografia, Immagini

Come citare questo articolo: Mario Finotti, Con il fucile e con la fotocamera, in “I Luoghi della storia nel Novarese e nel Verbano-Cusio-Ossola”, A. 0 – N. 0

Con il fucile e con la fotocamera

La nascita della fotografia

La fotografia nasce ufficialmente il 7 gennaio del 1839, quando un giudizio dell’Accademia della Scienze di Parigi ne decreta, con le ispirate parole di Francois Arago, l’avvio.

Da fotografo mi piace pensare che, già pochi decenni dopo, percorsa una relativa evoluzione tecnica che riguardava soprattutto il supporto e i materiali sensibili, la pratica della fotografia avesse raggiunto un alto grado di progresso sia sul piano tecnico che sul piano espressivo.

Famosi scatti, come i celeberrimi ritratti di Victor Hugo o di Charles Baudelaire o l’autoritratto di Nadar (cito solo i più conosciuti), propongono un grado di perfezione tecnica e stilistica che li rende degni di un approccio contemporaneo.

Negli stessi anni l’inglese Roger Fenton (1819 -1869) viaggiando con il suo “Photographic van” sui campi di battaglia documenta con una serie di immagini potentissime la guerra in Crimea. Siamo nel 1855. Dopo di lui, dallo stesso scenario e da altri contesti esotici, abbiamo gli scatti dell’italiano Felice Beato (1834-1909).

Da allora, la fotografia prende un ruolo sempre più significativo nella documentazione degli eventi e degli uomini che li determinano.

 

Un fotografo novarese

Ugo Ferrandi nasce a Novara il 6 gennaio 1852, in una casa all’angolo fra l’attuale corso Mazzini e la via Dominioni[1] e, in un palazzo della via Ravizza, muore a 76 anni.

Nei primi anni della sua vita, che non si può non definire “avventurosa”, tra le altre cose, frequentò l’Istituto Nautico di Genova, conseguendo a soli 22 anni la patente di Capitano di lungo corso. Lasciata la marina, trascorse lunghi periodi in Nord Africa con ruoli diversi e incarichi sempre più prestigiosi.

Esploratore al seguito di Vittorio Bottego (1860-1897), fondò una stazione commerciale a Lugh e la difese dagli assalti delle truppe abissine rilanciate dalla vittoria di Adua. Per questo venne decorato con medaglia d’argento.

Qualche considerazione su come Ugo Ferrandi utilizzò lo strumento della fotografia per documentare i paesaggi, le fisionomie, i costumi e i manufatti delle popolazioni somale che ebbe modo di incrociare durante i suoi viaggi.

Come osserva Adolfo Mignemi nel volume “Protagonisti dell’arte novarese: i fotografi”, edito nel 2016 per conto del Consorzio Mutue di Novara, la fotografia rappresentò per Ugo Ferrandi una vera e propria forma di scrittura: diretta, senza fronzoli e artifici retorici. Ogni suo scatto appare come un appunto, colto al volo e quasi senza alcuna ricerca formale consapevole.

Poca la cura della composizione, approssimativo il taglio, appena sufficiente l’attenzione alla qualità della luce. Spesso l’ombra dell’operatore e del suo apparecchio fanno capolino ai margini delle lastre.

Unica concessione, forse inconsapevole, ai valori formali: gli esempi di composizioni di armi e di suppellettili, che egli stesso organizzava nella villa di famiglia a Suna, spesso collocate su un fondale che vorrebbe essere vagamente esotico.

Quando e in che modo egli si accosti alla pratica e, naturalmente, alla strumentazione fotografica, non è dato sapere: se acquistando direttamente i materiali o facendoseli mandare da casa, come faceva l’amico Arthur Rimbaud il grande poeta francese da lui conosciuto in Abissinia.

Non sappiamo neppure come questa strumentazione impari ad utilizzarla.

Ad ogni modo, divenne prestissimo un sistematico raccoglitore di immagini acquistate nel corso dei suoi viaggi e soprattutto un grande produttore di fotografie che raccolse in album spesso realizzati in più copie e che utilizzò anche nelle pubblicazioni realizzate con il patrocinio della Società Geografica Italiana.

Tra le più significative ricordo il volume “Lugh: emporio coloniale sul Giuba” del 1903 con l’estratto “Di alcune pratiche intime in uso presso i Somali” in cui si parla della crudele abitudine alle escissioni sessuali ai danni delle ragazze.

Comunque, in occasione dei rientri in Italia, riporta sempre con sé una copia dei materiali, foto, disegni ed appunti, affidandoli alle cure della sorella. Sono alla fine tredici raccoglitori (quattro di fotografie e nove di cartoline).

In tutto 1011 foto e centinaia di cartoline, oggi conservate presso la biblioteca civica accanto ai più di ventimila volumi che costituiscono un suo ulteriore lascito alla città.

In più, dalle lastre fece ricavare una serie di diapositive che utilizzò nelle conferenze organizzate per raccontare le sue esperienze di viaggiatore nel continente nero. Le lastre e le diapositive sono conservate in Archivio di Stato e presso i Musei Civici.

I suoi scatti, come detto sopra, non sono certo ineccepibili sul piano tecnico. I tempi di esposizione, necessariamente lunghi a fronte della scarsa sensibilità dei materiali, si traducono in numerosi “mossi”. Anche la messa a fuoco non è sempre perfetta. Inoltre la composizione imprecisa, la ripetizione delle riprese da varie angolazioni, sembrano decisamente suggerire l’idea di un Ferrandi fotografo più per necessità che per passione.

Ciò nonostante, mi piace qui descrivere alcuni scatti che giudico, nonostante tutto, ricchi di grande forza e pathos.

Mi riferisco in particolare ad alcuni ritratti di “tipi” nordafricani, uomini e donne e ragazzi ripresi a mezza figura, isolati dal paesaggio, inquadrati frontalmente o di leggero tre quarti. Il punto di vista in qualche caso dall’alto, può essere discutibile, ma la capacità di restituire la specificità della persona attraverso il mezzo, non manca mai.

In questo senso, ancora più significativo è il ritratto a figura intera del giovane Omar Barre, suo giovane servitorello fotografato dapprima in loco ed in stretto costume africano, con la lancia e lo scudo e poi, in seguito, ripreso a Novara in abiti occidentali a testimonianza di quella che oggi definiremmo una perfetta integrazione alle mode europee.

Colpisce pure uno scorcio di paesaggio in cui si colloca un gruppo di nomadi con il suo bestiame al seguito (bovini e cammelli).

La luce radente del tramonto, la disposizione delle masse, la quinta delle colline sullo sfondo, conferiscono una qualità pittorica all’immagine, che qui acquista un valore quasi poetico. Chissà se ricercato o soltanto intuito dal nostro ?

Quasi il medesimo stupore affiora nei confronti di una foto che appare a prima vista come incredibilmente semplice e povera di qualità compositiva .

Si tratta del ritratto di un indigeno, sommariamente vestito con una povera tunica e calzato di un bianchissimo turbante, che contrasta con i toni della pelle del viso. L’uomo guarda in macchina e inclina leggermente il capo. Forse accenna un sorriso. Accanto a lui, di profilo, la sagoma imponente di un dromedario. Quasi in posa. Fisso nella sua immobilità. I due, sullo sfondo di un vallone interamente ricoperto di vegetazione, sembrano offrirsi all’obiettivo con la dolce consapevolezza di chi non teme nessun affronto da parte di chi li vuole ritrarre.

Un’altra immagine, di nuovo con la presenza imponente di un dromedario ripreso di profilo e caricato con oggetti (suppellettili, un tappeto, dei contenitori), sembra collegarsi alle numerosissime composizioni di armi e oggetti di uso quotidiano che Ferrandi realizzerà una volta rientrato in patria.

Per finire, lo scatto che più colpisce. Un capolavoro di forza espressiva, che in questo caso viene soprattutto dal soggetto, oltre che dalla composizione e dai valori tonali espressi nel potente bianco nero. Si tratta del gruppo di nativi agli ordini del capo Nasi Bunda, ras di Goscia. Sullo sfondo di una vegetazione appena disegnata, armato di lance e scudi primitivi, non perfettamente nitido, un gruppo di una ventina di guerrieri neri fa da quinta al suo capo: un uomo imponente nel fisico, adeguatamente abbigliato, che, brandendo un revolver, guarda con occhio fisso e minaccioso verso Ferrandi, la cui presenza è rivelata dall’ombra che, in basso a destra, si proietta sul terreno invaso di sterpaglie.

A conclusione, ne ho già accennato, c’è la sequenza delle composizioni, quasi dei moderni still life, che mostrano il gran numero di oggetti riportati dalla terra d’Africa da Ugo Ferrandi e che in seguito entreranno a far parte delle collezioni etnografiche dei Musei Novaresi.

Qui le caratteristiche degli oggetti, la loro linearità, la pochezza degli attributi cromatici, nell’imposto bianco nero, la materia di cui gli stessi sono costruiti (legno, ferro, cuoio), la semplicità della lavorazione e del decoro, contribuiscono, nella composizione, quasi sempre molto complessa, addirittura caotica, a indurre, a prima vista, la suggestione di una composizione grafica astratta.

Mi fermo qui, felice di essere riuscito, se ci sono riuscito, a comunicarvi tutta l’ammirazione che fin da piccolo, visitando le sale del museo antropologico dedicato a Ferrandi e a Faraggiana, provavo nei confronti di questo personaggio di cui ho ammirato i reperti raccolti durante lunghi viaggi avventurosi in una terra piena di misteri e di suggestioni[2].

Misteri e suggestioni che si ritrovano osservando le fotografie dei suoi album.

 


Note:

[1] Una targa ricorda sulle facciate dei due palazzi gli estremi anagrafici di Ferrandi: vedi le foto

[2] Secondo museo naturalistico a livello regionale, dopo il MRSN di Torino per le dimensioni dell’esposizione e per la consistenza delle collezioni, il Museo di Storia Naturale “Faraggiana Ferrandi” ha sede nell’ottocentesco Palazzo Faraggiana, nel centro storico di Novara. È vicino alla Cupola Antonelliana della Basilica di San Gaudenzio, uno dei maggiori edifici al mondo costruiti interamente in mattoni e simbolo della città. Di particolare rilievo la collezione zoologica, costituita da quasi 2500 animali inventariati, di cui oltre il 70% appartiene alla collezione storica della famiglia Faraggiana, raccolta grazie anche al contributo di Ugo Ferrandi.